Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Gaeta

5 novembre 1860 - 13 febbraio 1861

Gli avversari

Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie

Nato a Napoli il 16 gennaio 1836 da Ferdinando II e da Maria Cristina di Savoia, che morì pochi giorni dopo il parto, crebbe in buona armonia con Maria Teresa d'Asburgo, sposata dal re Ferdinando nel gennaio 1837, e con i dodici figli nati da questo matrimonio. Sebbene prediletto dal padre, questi ne trascurò l'educazione e, autoritario e accentratore, non si preoccupò di prepararlo al ruolo di futuro sovrano. Affidato a maestri mediocri, studiò senza mostrare particolari inclinazioni. Solo nel diritto raggiunse un buon livello di preparazione, sicché N. Nisco, non certo sospetto di filoborbonismo, ebbe a dire che "nessuno meglio di Francesco II conosceva le leggi ed i regolamenti amministrativi" (Nisco, 1894, p. 7). Profonda influenza esercitò sul fanciullo, assecondandone la naturale inclinazione all'ascetismo e accentuandone lo spirito di rassegnazione, lo scolopio P. Vita, precettore di catechismo. Da questo, dall'istitutore monsignor F.S. D'Apuzzo, oltre che dal padre, Francesco derivò un profondo attaccamento alla religione, sconfinante spesso nella bigotteria e nella superstizione. Circondato da un ambiente moralmente e intellettualmente angusto, crebbe privo di esperienze, insicuro di sé, ligio alla volontà paterna. Nell'autunno del 1858 accettò le decisioni paterne sul suo matrimonio. La scelta di Ferdinando II era caduta su Maria Sofia di Baviera, sorella di Elisabetta moglie dell'imperatore Francesco Giuseppe. Sulla designazione influì la fede cattolica della principessa, più che la volontà di rafforzare i legami con gli Asburgo. Il matrimonio, celebrato per procura a Monaco l'8 gennaio 1859, e poi di persona a Bari il 3 febbraio, unì due giovani dal carattere molto diverso. Ancora più scialba apparve la figura di Francesco in confronto alla bella ed esuberante moglie, che mal si adattò alla grigia atmosfera della corte napoletana. Proprio durante il viaggio in Puglia, in occasione dell'arrivo di Maria Sofia, si erano avute le prime avvisaglie della malattia che avrebbe portato alla immatura scomparsa di Ferdinando II. L'evento colse tutti impreparati, non escluso lo stesso sovrano che fino all'ultimo aveva tenuto lontano dagli affari il figlio, entrato a sedici anni nel 1852 nel Consiglio di Stato, senza avere per questo alcuna responsabilità di governo. Salito al trono il 22 maggio 1859, Francesco si trovò ad affrontare subito decisioni impegnative.

Francesco manifestò subito l'intenzione di rimanere fedele alla linea politica del padre. Ne conseguirono la conferma della neutralità nel conflitto tra l'Austria e il Piemonte appoggiato da Napoleone III e la caduta delle speranze di rinnovamento politico, che pure si erano nutrite e che avevano trovato fautori anche a corte, soprattutto nella persona di Leopoldo conte di Siracusa, zio del nuovo re. Francesco non si lasciò smuovere dall'offensiva diplomatica sferrata subito dopo la morte del padre. Francia e Inghilterra avevano colto l'occasione dell'omaggio al nuovo re per ristabilire i rapporti diplomatici interrotti nel 1856 dopo il congresso di Parigi. Ma Francesco non prestò ascolto ai consigli dell'ambasciatore britannico H.G. Elliot e dell'incaricato francese A. Brenier de la Renaudière sull'opportunità di riforme liberali, né accolse l'invito ufficiale del governo piemontese a partecipare alla guerra contro l'Austria e a ripristinare alla fine del conflitto la costituzione del '48, in cambio dell'impegno a garantire l'integrità del Regno. In un primo momento, a sottolineare la politica di continuità, il re si limitò ad apportare lievi modifiche al ministero. Di lì a poco, però, le entusiastiche manifestazioni seguite alla battaglia di Magenta del 4 giugno, che apriva la Lombardia ai Franco-Piemontesi e costringeva alla partenza i duchi di Parma e Modena e le autorità pontificie dalle Legazioni, lo indussero ad affidare la presidenza del Consiglio al generale Carlo Filangieri. Il generale, apprezzato per l'opera di pacificazione compiuta in Sicilia dopo il '48, era ben visto dall'opinione pubblica, oltre che per la sua competenza e rettitudine, perché ritenuto non avverso alle idee liberali. Ciò era vero solo in parte. Il Filangieri, non meno del re, giudicava pericoloso un brusco capovolgimento delle direttive del precedente sovrano. Tuttavia riteneva urgente prendere provvedimenti per rinvigorire lo Stato, rendendo più efficiente l'azione governativa, e uscire dall'isolamento, appoggiandosi alla Francia con la concessione di una costituzione di tipo conservatore ispirata a quella napoleonica, costituzione che fu fatta anche abbozzare da G. Manna. Ostacolato in tutte le sue proposte, il generale nel settembre '59, adducendo motivi di salute e di età, si allontanò dalla capitale e offrì insistentemente le dimissioni. In effetti fin dall'inizio i rapporti tra il re e Filangieri non si erano mostrati facili. Diffidente e sospettoso, Francesco non accordò mai piena fiducia al vecchio generale e, sull'esempio paterno, contrariamente alle attese, rivelò la ferma volontà di controllare personalmente la vita dello Stato. Non possedeva però gli strumenti, e forse neppure le capacità, per padroneggiare una macchina tanto complessa e, nel desiderio di esaminare tutti i provvedimenti proposti, finì con l'intralciare l'opera di riordinamento e rinvigorimento interno auspicata dal Filangieri. Il programma del generale, oltre tutto, era ispirato a una arretrata visione dei problemi del paese, che si cercava di risolvere secondo la tradizionale concezione paternalistica. Bisognava piuttosto garantirne la corretta applicazione praticando una profonda epurazione del personale e riordinando le amministrazioni. Occorreva inoltre avviare un vasto programma di lavori pubblici, "potente diversivo alle preoccupazioni degli animi", senza che però ciò comportasse una revisione complessiva della politica economica del Regno.

Malgrado la limitatezza di tali proposte poco o nulla Filangieri ottenne dal re. Così, negli affari di Sicilia, il presidente del Consiglio ottenne la sostituzione del ministro G. Cassini con P. Cumbo, ma non quella del fiacco luogotenente P. Ruffo principe di Castelcicala. I decreti del 16 giugno, che condonavano la residua pena ai condannati per reati politici, abolivano le discriminazioni a carico degli attendibili e concedevano il rimpatrio a 136 esuli siciliani, furono di fatto vanificati da una circolare riservata del direttore di polizia F. Casella, che manteneva la sorveglianza sugli "attendibili". Altrettanto vano riuscì l'auspicato rinnovamento del personale che, mancando funzionari capaci e stimati tra i sostenitori della discreditata dinastia, si ridusse a una serie di inefficaci trasferimenti e promozioni. Anche nel settore militare i risultati furono modesti. Molti mezzi furono profusi nella messa a punto di un campo trincerato negli Abruzzi (dove nel '59 si temeva un attacco garibaldino dall'Italia centrale) che, indebolendo le altre guarnigioni del Regno, finì col risultare dannoso quando la temuta aggressione si realizzò poi in Sicilia. Intanto il malcontento cresceva e i liberali, seppure non concordi sul da farsi, si organizzavano. Il 28 settembre Francesco, mostrandosi consapevole delle difficoltà in cui il Regno si dibatteva, chiese ai suoi collaboratori se "visti i pessimi tempi" non fosse il caso di "cambiare via e correre la corrente". Le risposte furono in maggioranza contrarie alle innovazioni, ma, temendo che le grandi potenze in un progettato congresso sulla questione italiana potessero imporre a Napoli una riforma degli ordinamenti interni, si risolvette di incaricare il ministro per gli affari di Sicilia, P. Cumbo, della redazione di una nuova legge amministrativa. Il progetto venne a lungo discusso, esaminato, criticato; giudicato pericoloso, soprattutto per la proposta di rendere elettivi i Consigli comunali, fu accantonato. In questo ostinato immobilismo si compromisero le sorti del Regno. Ritiratosi Filangieri, la scarsa incisività della politica governativa fu aggravata dall'indecisione di Francesco, che rinviò l'accettazione delle dimissioni, accolte solo nel gennaio 1860, e la nomina del successore, mentre restava attorniato da uomini vecchi e inetti. Già nell'ottobre '59 la nomina di L. Ajossa a direttore di polizia aveva segnato la ripresa della repressione di ogni forma di opposizione con arresti ed espulsioni. Nel marzo '60 la nomina dell'ormai anziano A. Statella, principe di Cassaro, alla presidenza del Consiglio fece cadere le residue speranze di un'apertura ai liberali. Mentre si accentuava il sistema repressivo, si intensificava l'attività cospirativa e le annessioni nell'Italia centrale davano credibilità all'ideale unitario. In Sicilia, tradizionalmente ostile ai Borboni, nella primavera del 1860 l'organizzazione insurrezionale assunse concretezza d'azione. Fallito il 6 aprile il moto della Gancia, la dura repressione e il conferimento dei poteri alle autorità militari non scoraggiarono i promotori di una spedizione organizzata nel Regno sabaudo, capitanata da Garibaldi e ambiguamente sostenuta da Torino. Mentre le truppe garibaldine dilagavano nell'isola, in un Consiglio di Stato tenutosi il 30 maggio il Filangieri rinnovò la proposta di appoggiarsi alla Francia e di concedere una costituzione moderata. La discussione sull'opportunità di un mutamento radicale nella politica estera e interna fu lunga e vivace. Si risolse, infine, di affidare l'incarico di trattare con Napoleone III a G. De Martino, ambasciatore napoletano presso la S. Sede, che, partito per Parigi il 5 giugno, non ottenne lo sperato sostegno, poiché l'imperatore consigliò di cercare piuttosto accordi con Torino. Evidentemente non rimaneva altro da farsi che concedere la tanto discussa costituzione, ma come estremo ripiego al quale tuttavia continuavano ad opporsi gli irriducibili. La decisione fu presa nel Consiglio di Stato del 21 giugno e, con atto sovrano del 25, il re, oltre a concedere una costituzione il cui testo sarebbe stato definito da un nuovo ministero presieduto da A. Spinelli, accordò un'amnistia per tutti i reati politici, preannunziò un accordo col Piemonte, comunicò l'adozione della bandiera tricolore e promise speciali istituzioni per la Sicilia. L'accoglienza non fu calorosa come ci si aspettava. Troppo tardi il sovrano aveva concesso quello che ormai non poteva più negare.

Il ministero costituzionale avrebbe dovuto conseguire due principali obiettivi: consolidare all'interno il nuovo regime, assicurare all'esterno l'accordo col Piemonte. Ma ormai insormontabili difficoltà si opponevano ad ogni buon proposito. Da una parte i vari tentativi di avvicinamento al governo sabaudo (in luglio furono inviati a Torino il ministro G. Manna e il diplomatico A. Winspeare) si rivelarono infruttuosi. Dall'altra, il regime costituzionale, mentre era insidiato da una debolezza di fondo, determinata dalle modalità stesse con cui si era giunti ad esso, era ulteriormente reso precario dal profondo turbamento nell'ordine pubblico generato dalla fine dell'assolutismo e, soprattutto, dalla mancata adesione e collaborazione dei liberali che, dopo le amare esperienze del '48, non nutrivano fiducia nell'improvvisa conversione del re. Il ministero Spinelli, pur non possedendo né la capacità né il prestigio per guidare il paese in un momento tanto difficile, fece il possibile per salvare la situazione. Abilmente richiamò in vigore lo statuto del '48, sospeso ma mai abrogato, evitando così di aprire una pericolosa discussione sul testo da adottarsi; si adoperò a cancellare ogni avanzo del passato dispotismo, praticando una vasta epurazione del personale che finì, tuttavia, con l'accelerare il tracollo dell'apparato statale per la mancata disponibilità, da parte di molti, a compromettersi con un governo di cui si sentiva imminente la fine; cercò di arginare i disordini, venutisi a creare nella capitale e nelle province per l'indebolimento dell'apparato repressivo, con la formazione della guardia nazionale, che incontrò però grosse difficoltà nell'organizzazione e nell'armamento; preparò progetti di legge e di riforme; indisse per il 19 agosto le elezioni. I liberali, dissuadendo la borghesia inizialmente orientata ad accettare le concessioni fatte da Francesco, riuscirono a creare il vuoto intorno al gabinetto costituzionale. Il dibattito, ampio e vivace, si svolse soprattutto sui giornali, che subito fiorirono numerosi. Non si riuscì, però, a concertare un'azione comune tra gli opposti schieramenti moderati e democratici e, in luglio, il fronte antiborbonico si scisse in due comitati, dell'Ordine e dell'Azione. Soprattutto nelle province ferveva il lavoro cospirativo. Dalla Basilicata, insorta il 16 agosto, l'impeto rivoluzionario si propagò rapidamente alle altre province. Il terreno era pronto per un nuovo intervento di Garibaldi che, sbarcato sulla costa calabra il 20 agosto, sbaragliò senza incontrare molta resistenza le demoralizzate truppe borboniche e avanzò rapidamente verso la capitale, dove entrò trionfalmente il 7 settembre. Nel gennaio 1860 il re, conscio della bufera che si andava addensando all'orizzonte, aveva detto: "Se la rivoluzione scoppia, reprimerla con la forza, se si domina stabilire un governo forte ed energico; se non si domina, riunire la truppa in sito forte e certo fuori la capitale e attendere che le potenze Russia, Prussia ecc., si muovano come si deve aspettare" (Moscati, 1960, p. 64). In silenzio, dominato e trascinato dagli eventi, F. aveva atteso, ma nessuno era accorso a difendere i suoi diritti. I tempi del congresso di Lubiana erano troppo lontani. Abbandonato da tutti - le dimissioni di Spinelli (27 agosto) e di altri ministri e generali erano state precedute dalla partenza della regina madre Maria Teresa e dei più intransigenti reazionari per Gaeta, mentre le famiglie più devote al vecchio regime prendevano la via dell'emigrazione -, Francesco, dopo aver rinunziato all'idea di porsi alla testa dell'esercito per affrontare il nemico nella piana del Sele, il 6 settembre si decise a lasciare Napoli. Rassegnato, partì alla volta di Gaeta scortato da due navi spagnole, giacché la flotta napoletana non rispose all'ordine di seguire il re. Francesco non intendeva rinunziare al trono. Riconosciuto da quasi tutte le potenze europee quale legittimo sovrano, nominò un nuovo ministero, mantenne i rapporti diplomatici, pubblicizzò i suoi atti attraverso un giornale ufficiale, la Gazzetta di Gaeta. Il nuovo ministero presieduto da Francesco Casella esisteva solo formalmente, senza uno Stato da governare. Più importanti in quei giorni erano i problemi d'ordine militare. Soprattutto l'inaspettato concorso di truppa che, con altissimo senso dell'onore, si raccolse nelle piazzeforti di Gaeta e di Capua, alimentò l'idea di una offensiva volta a riconquistare la capitale. Circa 40.000 uomini attendevano dietro il Volturno il segnale della battaglia. Il comando generale dell'esercito era stato affidato al generale G. Ritucci e a lui il re chiese un piano di guerra. Al momento dell'azione Francesco preferì però un altro piano, forse studiato dal francese C.-L.-L. Juchault de Lamorcière, molto più complesso e ambizioso di quello del generale napoletano. L'operazione, che prevedeva un'ampia manovra avvolgente sul lato destro dell'esercito garibaldino, prese il via il 1° ottobre. Le truppe, attestate a Capua, impegnarono una battaglia campale sul Volturno e furono sul punto di sfondare le linee nemiche ma, fosse per l'irrisolutezza del Ritucci, fosse per il genio militare di Garibaldi e per il valore dei volontari, l'offensiva fallì. Il 15 ottobre, con l'ingresso delle truppe sarde (passate attraverso le Marche e l'Umbria) in territorio napoletano, svaniva ogni fondata ipotesi di riscossa. Il 7 novembre Vittorio Emanuele II entrava a Napoli e prendeva ufficialmente possesso del Regno che col plebiscito del 21 ottobre aveva accettato l'unione al Regno di Sardegna. Il 2 novembre c'era stata intanto la capitolazione di Capua. Francesco, mostrando un'inconsueta fermezza e forza di volontà, optò per la resistenza a oltranza nella cittadella di Gaeta, pressoché inespugnabile. Il sovrano volle forse riscattarsi dalle accuse di debolezza che circolavano sul suo conto.

L'assedio di Gaeta da parte delle truppe del generale E. Cialdini si protrasse per circa tre mesi, anche per la presenza di navi francesi che impedivano il blocco dalla parte del mare. Francesco rifiutò tutti i consigli di resa, rispose con autentica dignità di sovrano all'annuncio della partenza della flotta francese: ritirarsi con una fortezza ancora intatta avrebbe voluto dire oscurare l'onore militare, avrebbe voluto dire rinunziare alle speranze che la spontanea reazione in varie province lasciava nutrire. Gli assediati, sostenuti dal comportamento del giovane sovrano e, soprattutto, dall'esempio dell'intrepida Maria Sofia, erano determinati a non cedere, ma il blocco navale, il violento bombardamento, la recrudescenza di un'epidemia di tifo, fecero infine decidere Francesco per la capitolazione, conclusa il 13 febbraio 1861. La mattina del 14 febbraio Francesco, seguito da Maria Sofia e da quanti avevano sostenuto quell'estrema difesa, saliva a bordo di una nave francese, la "Mouette", diretto a Roma. Qui i sovrani esiliati furono dapprima ospiti di Pio IX al Quirinale, poi spostarono la loro residenza a palazzo Farnese. Francesco formò un nuovo ministero, presieduto da P. Calà Ulloa, che si limitò a studiare le riforme da realizzare nell'eventualità della riconquista del Regno, ma poté svolgere un'intensa azione presso le corti europee, poiché il corpo diplomatico era rimasto fedele a Francesco, e i rappresentanti dei paesi stranieri (tranne quelli di Piemonte, Francia e Inghilterra) avevano seguito Francesco a Gaeta e poi a Roma. In marzo, con la capitolazione delle cittadelle di Messina e Civitella del Tronto, ultime roccaforti della resistenza, finiva la presenza delle truppe borboniche nel Regno, ma non finivano i sogni di riconquista. Il 5 aprile 1861 Francesco inoltrò una protesta a tutte le potenze per denunziare l'illegalità della posizione di Vittorio Emanuele II, e la diplomazia napoletana si adoperò per impedire il riconoscimento del Regno d'Italia da parte dei vari Stati. Per la riconquista si puntò molto, più che su un improbabile intervento della Spagna o dell'Austria, sul brigantaggio che, esploso violentemente nelle province napoletane per la delusione e il malcontento dell'affrettata unificazione, opponeva serie difficoltà al consolidarsi del nuovo regime. Si cercò allora di trasformare le diffuse rivolte in stabile guerriglia e a questo scopo si prepararono ed effettuarono varie spedizioni capitanate da legittimisti stranieri, quali J. Borjes e R. Tristany, clamorosamente fallite.

Nonostante i piani di riscossa elaborati di volta in volta dai generali G.B. Vial, F. Bosco, T. Clary, l'intensa attività dei comitati borbonici sorti un po' dovunque in Europa per sostenere la causa di Francesco, il grande afflusso nella capitale pontificia di legittimisti, soprattutto spagnoli e francesi, pronti a prestare la loro opera; nonostante i vari tentativi per interessare le potenze europee alla sorte dell'ultimo re delle Due Sicilie, l'attività propagandistica attraverso opuscoli e scritti, lo sperpero di danaro, le speranze di riconquista del Regno si facevano di giorno in giorno più remote. I vari Stati, ultima l'Austria, finirono col riconoscere il Regno d'Italia ritirando da Roma i loro rappresentanti presso Francesco; il brigantaggio perse presto ogni coloritura politica riducendosi ad espressione di malessere sociale, mentre le difficoltà finanziarie erano pressanti e la corte era dilaniata da rancori e gelosie. Ripiegato su se stesso, Francesco inclinava sempre più alla rassegnazione. Già il 31 dicembre 1862 aveva annotato sul suo diario: "L'anno che finisce fu per me tristo ed affligente". Alternando la residenza romana a quella più gradita di Albano Laziale Francesco trascorreva le giornate tra gli "affari" e le lunghe passeggiate a piedi o in carrozza. Ma il tempo non faceva che accrescere lo scoraggiamento e il senso di solitudine del sovrano, amareggiato, oltre che dai contrasti tra i suoi cortigiani, anche e soprattutto dai pettegolezzi e dalle volgari calunnie circolanti sul conto di Maria Sofia che, dopo le eroiche giornate di Gaeta, si andava sempre più allontanando dal marito. A questo atteggiamento corrispose il progressivo distacco da Francesco del vecchio mondo reazionario, orientato verso i fratelli di Francesco, dapprima verso Luigi, conte di Trani, già in passato sostenuto da un presunto partito "tranista" capeggiato da Maria Teresa, e poi verso Alfonso, conte di Caserta. La guerra del 1866, e poi la gravidanza di Maria Sofia nel '69, con la speranza della nascita di un erede, accesero tra i legittimisti nuovi entusiasmi, presto però delusi perché nacque una femmina, Maria Cristina Pia, morta a tre mesi. Francesco alla fine del 1866 aveva sciolto il ministero. Il 21 aprile 1870, senza essere riuscito a ottenere dal Regno d'Italia neppure la restituzione dei suoi beni privati, lasciò Roma. Assunto il titolo di duca di Castro, non avrebbe più fatto parlare di sé né sul piano politico, né su quello privato. Ospitato in un primo momento dal cognato in Baviera, si stabilì poi in Francia, ma non vi tenne fissa dimora, viaggiando spesso. Di salute malferma, era solito trascorrere ad Arco, nel Trentino, l'inverno onde alleviare i disturbi causatigli dal diabete che da anni lo insidiava e lo aveva precocemente invecchiato. Lì morì il 27 dicembre 1894. La salma fu trasferita a Trento durante la prima guerra mondiale, poi a Roma nel 1926, e infine traslata a Napoli nella sepoltura dei Borboni nella basilica di S. Chiara, nel 1984.


Leonide Lamoricière

Generale, uomo politico e diplomatico italiano, nato a Castelvetro di Modena nel 1811. Studiava medicina a Parma quando, scoppiati i moti del 1831, si arruolò nelle milizie volontarie del generale Zucchi (glorioso superstite delle guerre napoleoniche), milizie che furono respinte fino ad Ancona e quivi costrette a capitolare. Cialdini riparò allora in Francia, e a Parigi continuò gli studi di medicina. Ma quando il genovese Borso Carminati, fu incaricato di levare in Francia una legione straniera per combattere in Portogallo contro l'usurpatore don Miguel, il Cialdini si arruolò come semplice soldato (1833). Passò poi nella Spagna dove i liberali cristini combattevano contro l'assolutismo carlista (1835). Combatté per la costituzione e si distinse in parecchi fatti d'arme. Nel 1838 aveva il grado di maggiore; ma l'anno seguente rinunciò a quel grado per assumere quello di sottotenente nell'esercito regolare spagnolo, e in soli otto anni giunse al grado di colonnello nella gendarmeria. Avuta la missione di recarsi a Parigi per studiare l'organizzazione della gendarmeria di Luigi Filippo, si trovò presente allo scoppio della rivoluzione del febbraio 1848. Il Cialdini si recò allora a Milano dove offri i suoi servigi al governo provvisorio. Non accettato, si rivolse al generale Durando, comandante in capo dell'esercito pontificio mobilitato nel Veneto, che lo accolse e lo aggregò al proprio stato maggiore. Fu, col D'Azeglio, alla difesa di Monte Berico (10 giugno 1848) dove rimase gravemente ferito al ventre. A guerra finita si recò in Piemonte ove ebbe il grado di colonnello dell'esercito sardo e il comando degli emigrati emiliani, con i quali fu costituito un reggimento, comportatosi poi bravamente alla Sforzesca (21 marzo 1849). Nel 1855 gli fu conferito il comando di una delle brigate inviate col corpo di spedizione in Oriente. Fu poi ispettore dei bersaglieri. Nell'imminenza della guerra del 1859 coadiuvò Garibaldi nella costituzione del corpo dei Cacciatori delle Alpi. Alla campagna partecipò come comandante di divisione e si distinse a Palestro. L'anno seguente, alla testa di un corpo d'armata, prese parte all'invasione delle Marche e dell'Umbria. Vinte a Castelfidardo le truppe pontificie comandate dal Lamoricière (18 settembre 1870), il Cialdini fu promosso generale d'armata. Gli avvenimenti ulteriori portarono l'esercito piemontese contro l'esercito napoletano del quale il Cialdini ebbe facilmente ragione nei combattimenti d'Isernia e di Sessa. Intanto Garibaldi aveva battuto i borbonici al Volturno. Nel novembre il Cialdini iniziò le operazioni d'assedio contro la piazza di Gaeta, estremo ridotto del re di Napoli e dei suoi fedeli. La fortezza innalzò bandiera bianca il 12 febbraio 1861. Dopo di che il Cialdini fu inviato a dirigere le operazioni contro la cittadella di Messina, che capitolò il 13 marzo. Al Cialdini fu conferito il titolo di duca di Gaeta. Nominato comandante del corpo d'armata di Bologna, ed eletto deputato per il collegio di Reggio Emilia, il Cialdini fu alla fine di quello stesso anno (1861) incaricato di reggere le provincie dell'ex-regno di Napoli, come plenipotenziario civile e militare del re. Diresse la repressione del brigantaggio. Dopo circa un anno rioccupò il suo posto a Bologna. Nel 1864 fu eletto senatore.

Mentre la diplomazia preparava l'alleanza italo-prussiana per la comune guerra contro l'Austria, il Cialdini fu interpellato circa il piano militare dell'invasione del Veneto. Fra lui e il La Marmora presidente del consiglio e preconizzato comandante supremo dell'esercito mobilitato, non si poté giungere sostanzialmente a un accordo (l'accordo fu apparente e basato su di un equivoco), preferendo il Cialdini l'offensiva attraverso il basso Po e il La Marmora l'offensiva attraverso il Mincio con azione diretta contro il quadrilatero. Il La Marmora, dando prova di debolezza, finì con l'adottare un piano intermedio, col grave inconveniente della separazione delle forze. Delle 20 divisioni dell'esercito mobilitato, 8 furono poste agli ordini del Cialdini e concentrate fra Bologna e Modena, col compito di passare il Po presso Ferrara due giorni dopo l'inizio delle azioni dimostrative che lo stesso La Marmora avrebbe compiute con la massa maggiore delle forze dal confine del Mincio. Ma, battute a Custoza, le forze del La Marmora ripassavano alla destra del Mincio, mentre il Cialdini sospendeva il passaggio del Po. Ripresa dopo due settimane l'offensiva, l'esercito italiano guidato dal Cialdini, che ne aveva assunto il supremo comando, avanzò nella pianura veneto-friulana per ristabilire il contatto con gli Austriaci, ma non riuscì che a raggiungere una retroguardia a Versa col corpo d'armata del generale Cadorna. Dopo la guerra, fra il La Marmora e il Cialdini furono lunghe e astiose polemiche. Nel 1870 il Cialdini, che nel 1867 era stato insignito del Collare dell'Annunziata, fu a Madrid come ambasciatore straordinario presso il re Amedeo I di Savoia. Al ritorno in patria ebbe il comando militare di Firenze. Nel 1876 fu nominato ambasciatore a Parigi. Si ritirò dalla vita diplomatica nel 1881. Morì a Livorno nel 1892.

La genesi

Caduta Ancona, l'esercito regio poteva muovere verso il Mezzogiorno a sostegno dei garibaldini, per compiere l'opera loro grazie alle possenti artiglierie, colle quali si sperava d'aver presto ragione delle fortezze di Capua e di Gaeta. L'esercito regio avrebbe pure dovuto, nella comune opinione, prendere l'offensiva contro le forze mobili borboniche, tanto più numerose di quelle garibaldine, e contribuire anche solo col prestigio suo a far cessare i movimenti filoborbonici, del Sannio specialmente. Ma in realtà esso aveva un altro compito, quello di sbarrare a Garibaldi la via di Roma. Non solo, ma questo esercito garibaldino, che pareva o si voleva vedere elevantesi come contraltare di quello nazionale sorto sul robusto tronco dell'esercito piemontese e già ad esso saldamente innestatosi, avrebbe dovuto sparire. Il compito suo positivo era finito; ora e il Cavour e le alte gerarchie militari erano concordi nel vederne solo i lati negativi, che si legavano fatalmente alle condizioni del sostrato politico-sociale del Mezzogiorno. Il 3 ottobre Vittorio Emanuele era in Ancona, assumeva il comando dell'esercito, col Fanti quale suo capo di Stato Maggiore; quivi una ambasceria di esponenti liberali e moderati del Mezzogiorno l'invitava ad entrare nel regno per garantirvi l'ordine, premessa necessaria d'ogni ulteriore progresso. Un nuovo ciclo operativo si apriva dunque. Bande reazionarie, rafforzate da elementi dispersi dell'esercito pontificio, s'erano mostrate nell'Ascolano: il V Corpo aveva mandato il generale Pìnelli, con la brigata Bologna e un battaglione di bersaglieri, ed esse s'erano subito disperse. Ora dunque il piano strategico era di avanzare per gli Abruzzi, così da giungere sul fianco sinistro e alle spalle dell'esercito borbonico, obbligandolo a ripiegare verso il Garigliano e Gaeta. Direttrice di marcia era dunque la strada lungo il litorale adriatico fino a Pescara, poscia quella che lungo la valle del fiume omonimo per la stretta di Popoli conduce a Sulmona, per poi procedere verso il bacino superiore del Volturno su Isernia e Venafro fino a raggiungere presso Vairano la via Latina, da Capua a Cassino, minacciando al tempo stesso la linea nemica sul Volturno e quella del Garigliano. Era in sostanza il procedimento degli austriaci nel 1815, contro Gioacchino Murat, lungo la direttrice Sulmona-Isernia. Due colonne accompagnavano il movimento a sinistra e a destra. Il generale De Sonnaz, col 4° reggimento Granatieri di Lombardia, un battaglione bersaglieri e una batteria, da Manfredonia, Foggia e Ariano (la località dov'era cominciata la reazione il 13 settembre) e Benevento (la città, dominio pontificio, s'era resa indipendente ai primi di settembre) avrebbe dovuto avanzare su Capua o su Napoli, secondo le circostanze; e dall'altro lato il generale Brignone, col 3° Granatieri Lombardia, un battaglione di bersaglieri, 2 squadroni e una batteria, da Terni e Rieti avrebbe dovuto scendere all'Aquila e a Sulmona.

La marcia, però, fu condotta con una certa lentezza, che faceva contrasto con la rapidità fulminea delle mosse contro i papalini, e questo sia perché si volesse attendere l'esito del plebiscito nelle province meridionali senza aver l'aria d'influenzarlo minimamente, sia perché si volesse essere sicuri delle condizioni delle province in cui si penetrava, ove le formazioni volontarie mantenevano l'ordine a fatica. Infatti come già si è detto i borbonici, dopo la battaglia del Volturno, non ritennero di lasciare un semplice corpo d'osservazione sul Volturno contro Garibaldi e muovere col grosso contro i piemontesi; tuttavia mandarono il generale Scotti Douglas con 5 o 6000 uomini a Isernia, perché fosse il nerbo di una levata in massa dì contadini. E infatti la reazione s'era venuta estendendo da Venafro a Isernia, nell'alto bacino del Volturno, e di là si propagava fino a Sora, nell'alta valle del Liri; dilatandosi con un largo arco di cerchio fin presso Sulmona e giù giù fin quasi ad Avellino. In realtà, la massa procedette molto riunita e non si osò, come fu rilevato, puntare con una colonna dall'alto Volturno per Cassino direttamente su Gaeta. L'insurrezione contadina rappresentava anche per l'esercito italiano un'incognita da non prendersi a cuor leggero; inoltre esso era stato indebolito con l'invio della 13a divisione sul Po, sostituita sì dalle truppe sbarcate o in via di sbarcare a Napoli, ossia la brigata Re, la brigata Aosta e 2 battaglioni di bersaglieri, ma che non erano pel momento disponibili sull'alto Volturno.

Il generale Scotti aveva abbandonato però le forti posizioni che, per una ventina di chilometri oltre Isernia, presentavano una serie di linee difensive successive molto buone, concentrando la difesa sull'ultima di esse, al passo del Macerone. II Cialdini, giunto il 19 ottobre presso Roccaraso, spediva subito avanti un'avanguardia composta di 2 battaglioni bersaglieri, uno squadrone di cavalleria e 2 cannoni, al comando del generale Griffini, tenendogli dietro col grosso; il Griffini il 20 ottobre giungeva al passo del Macerone, trovandolo con sua meraviglia sgombro. Ma poco dopo apparvero le forze dello Scotti che tentavano in tre colonne, una lungo Io stradone e le altre due procedendo per le alture, di rioccupare la posizione. Il Griffini non aveva che poco più di 1000 uomini, e Io Scotti almeno 2000 regolari e 4000 contadini; pure, sfruttando abilmente il terreno e i suoi due cannoni, seppe trattenerlo a lungo, dando tempo al Cialdini di giungere a sostenerlo. Masse di cafoni tendevano ad aggirare la posizione alla destra, e il Cialdini subito mandava da quella parte un battaglione del 9° reggimento Regina, mentre con un battaglione di bersaglieri contrattaccava il suo centro e con lo squadrone di cavalleria giungeva al suo tergo. Le truppe regolari prese alle spalle ben presto si arrendevano, i contadini si disperdevano fra i monti. Cavalleria e bersaglieri occupavano Isernia e si spingevano oltre fino al Volturno, impadronendosi del ponte a cinque chilometri da Venafro. L'esercito italiano s'era aperta la via attraverso il Sannio. I borbonici avrebbero però pur sempre potuto tentare di difendere la stretta di Teano, fra il vulcano spento di Roccamonfina e i monti che portano a Caìazzo, ma ormai anche i garibaldini avrebbero potuto minacciarli alle spalle, cosicché persa l'occasione di organizzare una valida difesa appoggiata all'insorgenza contadina fra i monti del Sannio, essi ritraevano l'esercito a occidente di Teano, a sbarramento della strada Capua-Gaeta, alla stretta fra il Monte Massico e il vulcano di Roccamonfina. Capua restava abbandonata a se stessa. Allora Garibaldi disponeva per passare il Volturno con circa 12 000 uomini, e stabilire il collegamento coll'esercito. Il 25 ottobre Garibaldi passava il Volturno, sopra un mal sicuro ponte di barche, davanti a Sant'Angelo, e procedeva tenendosi rasente alla montagna per Bellona e Calvi; bivaccava la notte fra i monti dì Caianello e Vairano. Tre eserciti erano a poca distanza l'uno dall'altro. La mattina del 26 i garibaldini dal colle di Vairano scorsero l'esercito italiano che avanzava da Venafro. Garibaldi s'incontrò prima col Della Rocca e col Cialdini, e l'incontro fu molto cordiale. Dopo alcune ore, durante le quali le truppe non fecero che sfilare, si udirono le note della marcia reale e si levò il crido: «Il re, viene il re! » Garibaldi e il suo seguito si avanzarono a cavallo sul margine della strada. Vittorio Emanuele pure a cavallo s'affrettò verso di loro e Garibaldi gridò: «Saluto il primo re d'Italia». Il re e Garibaldi riprendevano il cammino seguiti dai loro Stati Maggiori. Ma la conversazione non riusciva ad essere animata e a un certo tratto Garibaldi e i suoi volsero verso Calvi, mentre il re procedeva verso Teano. Il volto di Garibaldi s'era fatto malinconico e taciturno. Durante la cavalcata l'imo accanto all'altro il re gli aveva comunicato, sia pure con garbo, che l'esercito regio si sarebbe assunto ogni altra operazione di guerra. La mattina dopo, incontrandosi con Jessie Mario, le diceva malinconicamente: «Jessie, ci hanno messi alla coda!» L'esercito meridionale non avrebbe avuto neppure l'onore d'esser passato in rassegna dal re. La meravigliosa epopea del 1860 era terminata. Il 9 novembre Garibaldi s'imbarcava per Caprera con un ultimo richiamo: « Arrivederci a Roma». Dell'esercito italiano il V Corpo, ridotto in realtà a una divisione, muoveva col Della Rocca contro Capua, mentre il grosso, col Cialdini, volgeva dalla parte opposta verso Gaeta. Subito venivano collocate le batterie. E il 1° novembre, nel pomeriggio, s'iniziava il bombardamento che si protrasse per tutta la notte, provocando non pochi incendi nelle abitazioni civili. Allora i capuani pretesero dal comandante borbonico la resa immediata; e all'alba del 2 novembre sventolò la bandiera bianca. Circa 11 000 uomini, anche se non tutti in piena efficienza bellica, si arrendevano. Dall'altro lato, lo stesso giorno 26 ottobre il Cialdini aveva proceduto verso la stretta di Cascano. Davanti a questa erano alcuni battaglioni di cacciatori borbonici di retroguardia, Ì quali dopo una breve resistenza sui poggi di San Giuliano retrocessero verso la stretta. La brigata Bergamo avanzò allora con due battaglioni sulla strada e un reggimento per l'altra. La difesa borbonica qui fu vigorosa: il fuoco durò per tutta la giornata senza che la brigata Bergamo e i bersaglieri riuscissero ad avanzare. Ma si trattava d'una semplice azione di copertura, allo scopo di permettere la riunione delle forze borboniche dietro il Garigliano; e le forze di copertura vennero fatte ritirare. Anche sul fiume la difesa dei borbonici fu tenace, anzi essi parvero voler opporre resistenza ad oltranza, con una divisione sul basso corso del fiume, una brigata di riserva dietro, e una a nord-est, sulla collina fra Castelforte e Suio, per timore d'una manovra italiana da Sessa lungo le pendici del vulcano di Roccamonfina, il 29 ottobre gli italiani compivano una vigorosa ricognizione con 3 reggimenti di cavalleria, 4 battaglioni di bersaglieri e 8 cannoni. Essa, agli ordini del generale De Savoiroux, procedeva non senza baldanza verso il Garìgliano: un battaglione di bersaglieri si spingeva ad occupare il ponte presso Minturno, ma trovava una resistenza accanita, e sebbene sostenuto da un altro battaglione, doveva retrocedere dopo un'ora di combattimento con perdite piuttosto gravi. Nella notte sul 31 si svolgeva, meglio preparato, un tentativo di forzamento del fiume coll'ausilio della fiotta, che prendeva di fianco efficacemente i borbonici. E allora era possibile agli italiani di passare il fiume presso la foce, costruendo due ponti occasionali. La flotta disturbava poi non poco la ritirata delle truppe avversarie verso Mola di Gaeta. I borbonici tentavano ora una difesa alla stretta di Mola di Gaeta, dove già nel 1503 i francesi, sconfitti da Consalvo di Cordova, avevano tentato un'ultima resistenza. Realmente la posizione era protetta di fronte da un profondo solco torrentizio, alla destra dal mare, alla sinistra dalla ripida montagna. E 2 divisioni sbarravano il passo, una a Formia e una in alto avanti, a Maranola. Proprio dopo la perdita della linea del Gariglìano, il generale Salzano aveva proposto al re Francesco di mandare una metà delle forze (3 divisioni per la difesa di Gaeta erano assolutamente troppe) per rianimare l'insurrezione nel Sannio (le bande si scioglievano e si riunivano continuamente, e una forte insurrezione avrebbe potuto minacciare gravemente l'esercito assediante e le sue retrovie), ma né il re, né il ministro della Guerra, generale Casella, avevano voluto saperne: le truppe avrebbero dovuto soprattutto difendere Gaeta o sconfinare nello Stato pontificio per costituirvi una riserva. I generali vollero però che si tentasse almeno la resistenza davanti a Mola di Gaeta. Il 4 novembre gli italiani assalivano le forti posizioni borboniche. Quivi si trovavano ancora col Von Mechel gli svizzeri e i bavaresi. All'alba due navi da guerra italiane aprivano il fuoco, vivamente controbattuto dai borbonici; accorsero altre navi italiane, e dopo due ore il fuoco era sospeso da entrambe le parti. Verso le dieci avanzavano le fanterie in due colonne; una per l'alto di bersaglieri e Granatieri di Sardegna, e una al basso per l'attacco frontale coi Granatieri di Lombardia. Come nel 1503 l'azione dall'alto decise la giornata. La lotta fra i carabinieri esteri borbonici e bersaglieri e granatieri italiani si risolveva con la vittoria di questi ultimi, i quali prendevano di fianco e alle spalle la difesa nemica al basso. E allora anche l'attacco al basso poté procedere con grande vigore. In questo modo la terza linea di difesa borbonica prima di Gaeta era superata. Gli italiani avevano avuto circa 150 uomini fra morti e feriti, e i borbonici circa 300, soprattutto nell'ultima fase del combattimento, e avevano inoltre perso 200 prigionieri e 4 cannoni.

Al solito, in queste tre azioni i soldati borbonici s'erano ben battuti, ma erano stati nell'insieme mal condotti. In realtà non c'era una mente direttiva, si procedeva volta a volta secondo le circostanze e soprattutto secondo il prevalere degli umori di questo o quel gruppo di generali, sempre discordi, sempre diffidenti l'uno dell'altro, e in complesso uomini appena mediocri. L'esercito borbonico si divideva ora in due parti: circa 11.000 uomini, con 1000 cavalli e oltre 40 cannoni col generale Ruggeri, ripiegavano verso Itri e Fondi, per rifugiarsi nello Stato pontificio, mentre altri 10.000, con 1300 cavalli e 50 cannoni, tentavano di riparare in Gaeta. Il Fanti disponeva però subito, il 5 novembre, perché una colonna celere coi Granatieri di Sardegna, 2 battaglioni di bersaglieri e 6 squadroni di cavalleria, inseguisse le truppe in ritirata verso Itri, mentre il 3° Granatieri di Lombardia era imbarcato su tre navi da guerra e portato a Terracina. In questo modo più di 11.000 borbonici erano accerchiati; ma s'intrometteva il generale francese Goyon, il quale disponeva che le truppe borboniche entrassero nello Stato pontificio a patto di depositarvi le armi. Vera sopercbieria, alla quale il Fanti dovette suo malgrado adattarsi.

La battaglia

Cominciava ora però l'assedio di Gaeta. La guarnigione della piazza sommava a 12.550 uomini con 692 fra cannoni, obici e mortai. Gaeta sorge sopra un promontorio dirupato congiunto alla terraferma da un istmo largo 700 metri. La parte nord-ovest del promontorio verso l'istmo e le parti nord e nord-est bagnate dal mare erano recinte di opere di fortificazione, dal lato di Terracina v'erano anche delle batterie distaccate. La parte nord-ovest costituiva il fronte di terra, al comando del generale Sigrist, le altre due parti il fronte di mare, al comando del generale Rìedmatten. L'assedio vero e proprio comincia il 5 novembre. Dal 5 all'11 gli assedianti restano fermi in attesa del parco d'assedio. La piazza si presenta ben pili munita e difficile da conquistare di quella d'Ancona. Il giorno 11 gli italiani attaccano le posizioni avanzate per costringere i napoletani a rifugiarsi nella fortezza e procedere quindi al virtuale investimento della piazza. I borbonici contrattaccano, la lotta si protrae per tutta la notte e il giorno dopo. Il 12 un battaglione di cacciatori napoletano si da prigioniero, gli italiani possono avanzare e sviluppare una duplice azione avvolgente. Così il 13 novembre s'inizia l'effettivo investimento della piazza, e gli italiani lavorano febbrilmente a costruire batterie. Il 29 gli assediati compiono una ricognizione che viene respinta con perdite: muore il tenente colonnello Uligg. Il 1° dicembre le artiglierie piemontesi iniziano il fuoco, coi cannoni rigati da 12. L'assedio però va per le lunghe; nuoce grandemente agli italiani la presenza della flotta francese, che impedisce le operazioni dal lato di mare. L'11 dicembre però l'ammiraglio francese consegnava al re di Napoli una lettera autografa di Napoleone III coll'invito a cessare da una resistenza ormai inutile. Il 13 il re rispondeva fieramente: «I re che partono difficilmente ritornano sul trono se un raggio di gloria non abbia indorato la loro sventura»; dichiarava di non voler abbandonare un esercito che voleva conservare l'onore della bandiera, ma dati gli scarsi mezzi finanziari e la penuria di viveri, disponeva lo scioglimento dei 2 reggimenti granatieri e del 3° Cacciatori della Guardia e l'imbarco degli uomini su due piroscafi francesi.

Ma i lavori delle truppe assedianti procedono sistematicamente. Dal 15 dicembre il tiro delle artiglierie si fa più insistente e preciso. Il 27 nuovo intervento di Napoleone per una sospensione d'armi, ma il re non accetta: «Una piazza bombardata non è una piazza presa». Il fuoco si fa sempre più intenso; alla sera dell'8 gennaio, Napoleone ottiene una tregua d'armi di dieci giorni: in quel giorno i piemontesi hanno scagliato 8000 proiettili, e i borbonici 2300. In verità, Vittorio Emanuele, il Fanti e il Cavour si meravigliavano che l'assedio andasse così per le lunghe, e cominciavano i mormorii contro il Cialdini. Il 18, però, la squadra francese lasciava le acque di Gaeta. Scaduta la tregua la sera del 18, ricomincia il fuoco delle artiglierie. Il 22 è una grave giornata per i difensori: se l'azione della flotta del Persane risulta inefficace - il tiro è stato fatto dapprima a distanza superiore alla portata dei pezzi, poi anche una seconda azione non ha avuto risultato -, dalla parte dì terra il fuoco è durato tambureggiante fino a tutta la notte. Il magazzino d'una batteria piemontese è saltato in aria uccidendo un ufficiale e 15 soldati. Gli assedianti aumentano ancora le loro batterie e lavorano febbrilmente nei lavori d'approccio. Il 25 gennaio scoppia il tifo nella guarnigione. I piemontesi scoprono ogni giorno nuove batterie, mentre il tifo aumenta d'intensità; i danni alla piazza sono ormai rilevanti. Il 4 febbraio scoppia il magazzino di polveri d'una batteria borbonica. Il 5 il magazzino di munizioni della cortina Sant'Antonio salta in aria, facendo crollare parte della cortina e gli edifizi attigui: la cinta principale dalla parte di mare è aperta. Gravissime le perdite quel giorno, e un centinaio di morti fra i civili. La sera del 6 i borbonici chiedono una sospensione di quarantott'ore per levare di sotto alle macerie i sepolti vivi, quindi una proroga di altre quarantott'ore sempre allo stesso scopo; e Cialdini questa volta ne concede solo dodici. Il 10 il re manda un parlamentario per indagare le idee del Cialdini circa le condizioni della resa; quindi decide di non prolungare la difesa e il governatore chiede una sospensione di quindici giorni. Ma il Cialdini risponde che accetta di trattare, ma senza sospendere le operazioni. Il 13 il magazzino d'una batteria borbonica salta in aria verso le ore quindici; tre ore dopo la capitolazione è firmata. La guarnigione ha l'onore delle armi. La mattina del 15 Francesco II s'imbarca su una nave francese. L'investimento è durato 102 giorni, ma senza che i piemontesi arrivassero ad aprire la breccia e a procedere all'attacco di viva forza. Gli assedianti hanno lanciato 60.000 proiettili, i borbonici 35.000. Essi hanno avuto, secondo le loro dichiarazioni, 560 morti per azioni di guerra e 307 per il tifo, 800 feriti o ammalati, 743 dispersi; i piemontesi hanno dovuto lamentare 50 morti e 350 feriti. L'assedio di Gaeta costituisce un'impresa di gran lunga più complessa e più difficile dell'assedio di Peschiera nel 1848; e mostra anche dal lato tecnico i progressi dell'esercito italiano. Certo, era stata una lotta singolare: i piemontesi avevano il vantaggio d'una artiglierìa rigata, molto superiore, e dì poter spesso colpire un nemico che non era in grado di controbattere l'offesa per la minor gittata dei suoi pezzi; ma viceversa i borbonici battevano lungo l'istmo una zona tutta scoperta, senza che i piemontesi potessero valersi di tiri d'infilata, e perciò il loro procedere era fatalmente molto difficile e lento, tanto che s'era pensato a un colpo di mano dal lato di mare. La difesa di Gaeta rimaneva poi una pagina molto onorevole per i soldati che l'avevano sostenuta e per i loro ufficiali. Il contadino meridionale aveva espresso anche ora la sua muta protesta contro una rivoluzione, dalla quale non vedeva alcun vantaggio prossimo e diretto. Gaeta rappresentava, insomma, da entrambe le parti, una bella prova del valore italiano.

Le conseguenze

La conferma di quanto significasse la capacità tecnica dell'esercito italiano si ebbe anche dalla sollecita resa della cittadella di Messina. Come ben sappiamo, era un arnese di guerra veramente robusto e possente e la presidiavano 4300 uomini. Contro di essa veniva mandata la brigata Pistola (35° e 36° fanteria), forte di circa 3900 uomini. Fino al 14 febbraio 1861 non vi erano state ostilità, ma caduta Gaeta, il 17 veniva intimata la resa; il generale borbonico Pergola rispondeva con un rifiuto e allora partivano per Messina il 9° reggimento fanteria Regina, 4 battaglioni di bersaglieri e 6 compagnie del genio, mentre si disponeva pure per l'azione della flotta. Dopo un'altra intimazione di resa, il 9 marzo fu iniziato il fuoco dell'artiglieria, che continuò per quanto poco intensamente il 10 e PII. Ma di fatto il vero bombardamento ebbe inizio la mattina del 12 col fuoco di 43 cannoni e 12 mortai. Una sortita del nemico era subito, facilmente respinta; verso mezzogiorno entravano in azione le batterie rigate, continuando fino al tramonto. Alle 17 i borbonici chiedevano una tregua di ventiquattro ore, il Cialdini la negava concedendo tre ore in tutto per la resa a discrezione, e alle ventuno essa era firmata. In realtà, la cittadella, terribile spina nel fianco per Messina nel 1848, con le opere accessorie s'era arresa dopo sei ore di bombardamento intenso.

Ultima ad arrendersi era la fortezza di Civitella del Tronto, in Abruzzo, al confine delle Marche. Difesa da buone fortificazioni e da un vecchio robusto castello della seconda metà del Cinquecento, essa si trovava in posizione naturalmente molto forte. Era stata il fulcro di una lotta reazionaria che dall'Ascolano nelle Marche si era estesa al Teramano negli Abruzzi, sebbene il suo presidio fosse di 200 gendarmi e 180 abitanti del posto, e avesse 24 vecchi cannoni in tutto. Sulle prime la legione sannita ne aveva iniziato il blocco, poi era intervenuto il generale Pinelli, incaricato nell'ottobre 1860 di mantenere l'ordine nell'Umbria meridionale, e passato nel febbraio '61 nell'Ascolano e Teramano. Il 6 dicembre era stata intimata la resa alla fortezza, ma con effetto nullo; anzi masse di contadini tendevano a rompere il blocco. Alla fine di dicembre la fortezza era bloccata da circa 1200 uomini. Il 12 gennaio si stabiliva una tregua di sei giorni, alla quale avrebbe dovuto seguire la resa, ma eccitamenti da Gaeta fecero si che i difensori cercassero di guadagnar tempo chiedendo una proroga. Il Pinelli rispondeva il 22 gennaio al maggiore Ascione, comandante della piazza, dichiarandogli che non avrebbe accettato altre comunicazioni che una resa a discrezione. Il 6 febbraio una grossa banda reazionaria, guidata da gendarmi, tentava di rompere la linea d'investimento, ma era vigorosamente respinta con perdite. Il 18 febbraio, quando cioè era giunta notizia della resa di Gaeta, il generale Luigi Mezzacapo fu incaricato di condurre avanti, intensificandolo, il blocco e rinnovò l'intimazione di resa; dopo di che non accettò tergiversazioni e dispose per un attacco di viva forza. Egli aveva 3400 uomini e una ventina di cannoni. L'attacco però falliva, data la difficoltà estrema di salire una ripida rampa di fronte a un pemico che si difendeva lanciando bombe e rotolando sassi; e si doveva lamentare una quarantina di perdite. Si preparavano nuove operazioni, quando da parte dello stesso ex re di Napoli giunse un messo per indurre i ribelli ad arrendersi; dopo altre trattative, il 20 marzo la guarnigione si arrendeva a discrezione. In questo modo si chiudeva l'ultima resistenza delle forze di Francesco II di Borbone. Da notarsi che proprio qui, e in senso reazionario, s'era avuto il tentativo di bande contadine di disturbare le operazioni d'assedio.



Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962